La comunicazione bulimica della cultura della sicurezza: intervento di Rita Somma
Nei giorni scorsi ho pensato al mio contributo di oggi, cosa apportare (ed ora mi rendo conto anche di fare forse sintesi), ho ragionato intorno all’oggetto, al titolo, del seminario: “comunicare la cultura della sicurezza”. È un tema ambizioso, mi sono detta. Comunicare è già di per sé molto molto difficile ma comunicare addirittura quella che è l’imputata numero uno della pubblica accusa, additata come causa del perdurare della piaga infortunistica, il mandante insomma, sembrerebbe davvero una impresa titanica. Cultura della sicurezza che, seppur invocata da tutti dopo ogni tragedia: manca la “cultura della sicurezza”, quante volte ce lo siamo sentiti dire … nessuno la trova, resta di fatto spesso latitante, se non tra gli addetti ai lavori, impermeabile al suo pubblico. Come fare per eliminare l’inceppamento nella comunicazione (mi sono chiesta)?
Ne è scaturito il ragionamento che mi permetto di condividere con Voi oggi, spero che il fil rouge di questo mio ragionamento, anche un po’ contorno se vogliamo, si comprenda. Sono partita dal domandarmi se davvero socialmente stiamo trasmettendo le generalità corrette, reali, di questa cultura della sicurezza o se stiamo riproducendo un profilo di cultura della sicurezza fake, che ci allontana dalla possibilità di redimerla questa condannata. Se già l’oggetto della comunicazione non è chiaro, come possiamo sperare che la comunicazione funzioni. Proverò allora a tracciarne un identikit, senza la pretesa di impossibile completezza, per i pochi minuti a disposizione, per sollecitarne però una riflessione.
Titolo: la bulimia comunicativa della cultura della sicurezza
Il concetto di cultura della sicurezza nacque negli anni ‘70 del secolo scorso ad opera di un sociologo (come me, beh a dir la verità un po’ piu’ bravo di me), tal B. A. Turner, che nell’ambito di studi organizzativi avviò l’analisi degli incidenti tecnologici (quelli che potremmo definire gli antenati, i Flintstones, dell’ultimo disastro alla centrale idroelettrica di Suviana, che tanto giustamente ha colpito l’opinione pubblica), il cui risultato ci ha lasciato in eredità quella che lui chiama “cultura della sicurezza”. Con questa locuzione Turner descrisse, lo riporto molto molto molto in sintesi ovviamente, quel paradigma interpretativo che rende le organizzazioni affidabili in termini di SSL, un modo di “agire ex ante, di mettere in campo pratiche di comportamento organizzativo per giungere concretamente prima ed evitare la tragedia insomma. Abbastanza anche semplice come concetto.
Una forma di azione organizzativa che agisce, incide o non subisce il sopraggiungere degli eventi affidandosi solo alla buona sostenuta dal cornetto rosso contro la iettatura appeso alla parete. Turner la descrive nei suoi studi, parla di cultura organizzativa positiva agente e ne sottolinea la responsabilità sociale diffusa, ognuno deve fare la propria parte (ndr. istituzioni, parti sociali, organizzazioni, lavoratori, etc.).
Il concetto “cultura della sicurezza” è diventato tuttavia diciamo “famoso” o “virale” (come si suol dire oggi) dopo il disastro di Chernobyl del 1986, dove però è stato utilizzato capovolgendone la prospettiva di lettura, proiettandola sull’altra faccia della medaglia. Con cultura della sicurezza si sono allora descritti gli importanti aspetti di cultura organizzativa negativa subente che hanno contribuito fortemente alla catastrofe nucleare. Da quel momento il concetto di cultura della sicurezza si è fatto Giano bifronte, da una parte c’era l’accezione positiva agente di Turner e dall’altra quella negativa di mancanza che tralascia. Ma stavamo parlando sostanzialmente dello stesso concetto, seppur visto con due lenti di lettura diverse e contrapposte.
Solo che nel tempo, nella rievocazione più popolare, gli abiti originari primigeni di Turner si sono persi e la cultura della sicurezza si è abbigliata sempre più delle vesti di “mancanza ex post”, d’altronde questa prospettiva costituisce un concetto bulimico pronto all’uso nell’occorrenza, senza fatica, il prezzemolino che può andare un po’ su tutto q.b … il perfetto capro espiatorio, altro da tutti noi, a cui metaforicamente imputare la causa del disastro già avvenuto senza grandi responsabilità sociali. La responsabilità è della cultura della sicurezza che manca, quindi di fatto di nessuno.
E così, la cultura della sicurezza è diventata una forza sovrastrutturale, una chimera che prescinde da qualsiasi dato dell’esperienza. Una illusione, come quelle a cui ci ha abituato il grande Houdini, che può essere posseduta (o non posseduta) in modo deterministico, e quindi di fatto allontanandola dall’essere oggetto di costruzione organizzativa quotidiana, che si erige anche con fatica mattone su mattone con l’impegno di tutti, per non consentire ad un soffio del lupo, come ci hanno raccontato nelle favole da bambini, di distruggerla.
Ma in questa distorsione prospettica, che guarda al solo lato postumo, senza il “pre” organizzativo agente (alias la cultura organizzativa di Turner), l’intero sistema prevenzionistico è soggetto a vacillare, riducendo pericolosamente anche l’efficacia delle misure tecniche e tecnologiche, che possono troppo spesso essere bypassate, rimosse, nella necessità di velocizzare la produzione. La questione è nota. Stessa sorte può toccare alla formazione, che può diventare zavorra di costo da subire, rischio elusivo sanzionatorio che vale la candela, di cui si è moralmente autorizzati a crollarsi o, piu’ velatamente, che può essere tradotto nella produzione di inutili (se non falsi) attestati, magari infiocchettati, da esibire come trofeo in caso di controllo. Per fare degli esempi.
Tutta questa storiella per dire che dobbiamo tornare a ragionare sulla “cultura della sicurezza” agente! Il “cosa manca” deve tradursi necessariamente in “cosa fare”. Non possiamo continuare a restare fermi alla finestra, in attesa del prossimo malcapitato, che siamo sicuri arriverà, probabilmente è arrivato anche oggi, anche mentre stiamo parlando. Dobbiamo cambiare marcia, superare la demagogia e la retorica di uso vago o generico del termine cultura della sicurezza, o anche peggio, di senso riduttivo, che minaccia di annullarlo, gettandolo quel ponte che conduce alla costruzione sociale della cultura della sicurezza, passando dalla filosofia delle cose alle cose.
Anche nella comunicazione questo è un passaggio cruciale ed il messaggio deve essere chiaro. Nel nostro manifesto di ricerca “WANTED” della cultura della sicurezza, oltre al nome, dobbiamo ricordarci di metterci l’immagine, i connotati, per facilitarne la cattura, stando attenti alle parole che usiamo, che verranno interpretate. Mi spiego. Se parliamo di formazione, ad esempio, la prospettiva da utilizzarsi non è solo quella di mancanza dell’attestato di formazione ma quella dell’aver agito per un “processo formativo specifico, dettagliato, effettivo ed efficace, che porta competenze divenute patrimonio del lavoratore”, altrimenti non è un bel nulla, diciamolo, a prescindere dalla presenza di un pezzo di carta.
Alla cultura della sicurezza, vista come forza procreatrice, costellazione e collante culturale, serve il direttore d’orchestra che ne tracci la strada. Deve essere accompagnata progettualmente nella sua crescita, nutrita, educata, istruita, mantenuta, come faremmo con un figlio, anche con lo sguardo rivolto alle micro, piccole e medie imprese, che rappresentano per il 94% il tessuto economico-produttivo italiano.
Servono politiche, strategie concrete, scelte e azioni educative di lungo raggio. Serve un navigatore GPS culturale, una sorta di Chat GPT predisponente l’artefatto organizzativo, propulsore e attivatore di processi di sicurezza insiti nel lavoro, prioritari e non derogabili, che possano valorizzare chi fa bene e fare uscire dal mercato chi vende fuffa, anche in termini di formazione.
E con questa fuffa, e chiudo, si crea una nuova forma di disuguaglianza sociale in termini di SSL: ci sono aziende sostenibili e altre dove, di fatto, non sono rispettate neanche le più elementari regole di sicurezza ed ogni lavoratore si ritrova da solo a correre la propria gara. Potremmo dire “a chi figlio e a chi figliastro” stiamo facendo, a chi vengono fornite le scarpette da corsa ultimo modello, a chi quelle raffazzonate e chi è costretto a correre a piedi nudi.
Rifacendomi a Auguste Comte, il papà fondatore della sociologia, che affermò che l’intelligenza umana passa progressivamente da tre stadi differenti maturazione: quello teologico, quello metafisico o astratto e quello scientifico, posso dire che sul concetto di cultura della sicurezza dobbiamo raggiungere ancora l’ultimo stadio.
Noi di AIFOS, ci siamo, quotidianamente, sul campo e di idee sul come fare ne abbiamo tante. “Non si rivoluziona facendo rivoluzioni, si rivoluziona presentando soluzioni”.
Grazie dell’attenzione.
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Saluti ed introduzione
Buon pomeriggio a tutti. Vi porto i saluti del Prof. Rocco Vitale, presidente di AIFOS, e dell’ing. Paolo Carminati, presidente di Fondazione AIFOS. AIFOS da sempre sostiene le iniziative in tema SSL, comprese quindi le attività della Nazionale Italiana Sicurezza sul Lavoro, che ringraziamo per l’invito e per consentirci di portare oggi le nostre idee. AIFOS in Regione Lombardia è fortemente rappresentata dai suoi soci e dai suoi CFA, che operano con qualità sul territorio, un territorio che conosciamo dunque in modo pervasivo e nel quale siamo presenti anche come “Centro di Formazione di Eccellenza”. Possiamo dire che la nostra associazione in Regione Lombardia c’è e, soprattutto, fa.
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